Qualcuno spieghi a Boldrin che… (Apologia degli studi classici)

È interessante osservare come i professori amino talora valicare i confini spesso angusti delle loro materie di insegnamento per superarne limiti e orizzonti. È il caso, ad esempio, del grande filologo Luciano Canfora quando riesce a passare con disinvoltura dagli Scholia di Omero alla Rivoluzione Francese e la teoria democratica, con risultati eccellenti. A volte va meno bene, come quando il matematico Odifreddi tenta di dimostrare (sic!) che Dio non esiste, ricevendone sonore legnate dal teologo (o, se si preferisce, “papa in pensione”) Joseph Ratzinger. Il risultato può essere addirittura disastroso, se si decide di pronunciarsi con piglio dogmatico su una materia della quale evidentemente nulla si sa. È il caso dell’economista Michele Boldrin, noto in Italia per aver distrutto in tempi record il movimento di Oscar Giannino “Fermare il Declino”, quando decide di lanciarsi in un’insolita crociata contro il Liceo Classico.

A dispetto dell’inusitata prolissità del suo articolo, l’argomento di Boldrin si può facilmente riassumere in un solo concetto: il Liceo Classico oltre a non insegnare nulla che serva davvero al mondo contemporaneo, forma una mentalità elitista fondata su valori che non hanno più alcun riscontro fattuale nel XXI secolo. Verrebbe da chiedersi come l’economista, che non ha frequentato il Classico e che da trent’anni vive negli Stati Uniti, possa essere così sicuro di cosa e come si insegni in Italia, ma immaginiamo che abbia condotto un’indagine (della quale tuttavia non rende conto) per arrivare a tali sconcertanti conclusioni.

Nel mio piccolo (anch’io sono professore universitario, ma al contrario di Boldrin ho frequentato il Classico e vivo in Italia) sento di dover sollevare alcune sostanziali obiezioni a quella che trovo una critica priva di fondamento:

1. È una vulgata recente che la Scuola debba insegnare qualcosa che sia utile a entrare nel mondo del lavoro. Questo è (quasi) completamente falso. Chiunque viva il mondo dell’impresa sa benissimo che il lavoro si impara facendolo, e la formazione avviene ormai all’interno dell’azienda, indipendentemente dalla fattispecie. È così dal tornitore artigianale al progettista di elicotteri di Agusta-Westland. La Scuola, dunque, non insegna a fare, ma insegna a pensare, per il non banale motivo che chi non sa pensare, non saprà mai fare. Poiché a Boldrin piacciono i “dati bruti”, potrà confortarsi sapendo che da tutti gli studi più recenti condotti nelle facoltà scientifiche (ad es. Ingegneria o Matematica), è emerso che il rendimento universitario degli studenti provenienti del Classico è nettamente superiore a quello di tutti gli altri. Ma come? Quegli snob tutti Aristotele e Voltaire, che non solo non sanno cos’è C+ ma non hanno neanche mai avuto a che fare con integrali e derivate, dopo sole poche settimane sono in grado di dare una pista ai colleghi provenienti dal Liceo Scientifico (degli istututi professionali non parliamo per un moto di umana pietà)? Eppure non ci vuole un Ph.D. a Chicago per spiegare questo fenomeno. Prendete un ragazzo mediamente dotato e sbattetelo a tradurre una lingua (il greco) che non solo ha pattern sintattici completamente diversi dai nostri, ma in cui ogni parola può significare tutto e il suo contrario. Se dopo cinque anni il poveretto non ha sviluppato una notevole capacità di “problem solving” (prego apprezzare un lessico comprensibile a Boldrin) i casi sono solo due: o è rimasto al quarto ginnasio, oppure si è iscritto a un’altra scuola. Il Classico non isegna praticamente nulla di pratico, né tantomeno di moderno (anche la fisica è quella classica!), ma forma intelligenza critica, metodo di studio e capacità di risolvere problemi complessi. Questo armamentario è ciò che fa la differenza tra un odioso elitista Voltairiano e il resto del mondo.

2. Le premesse di cui al #1 dovrebbero tacitare ogni amenità sfuggita al pensiero di Boldrin sulla “mentalità prescientifica”. Come la fisica quantistica ha a che fare con la fisica classica, anche Aristotele o Hegel hanno a che fare con il ragionamento moderno. Ciò che fa l’istruzione classica, in altre parole, è banalmente quello di porre delle solide fondamenta su cui poi si innesteranno docilmente le competenze di tipo tecnico richieste dal futuro ambito professionale. Tra queste, ad esempio, c’è quel corretto uso della lingua italiana di cui c’è bisogno in ogni ambito, ad esempio per non usare il “d” eufonico a caso o accenti e apostrofi in modo barbaro come nell’articolo approssimativamente italiano di Boldrin (e sì, caro Michele, anche se hai una tastiera americana, con il mac basta andare sul menù tastiera e potrai usare gli accenti in maniera corretta). Sono queste solide fondamenta che consentono di operare quella distinzione, che sembra sfuggire a Boldrin, tra cultura e tecnica. Chi, come nei desiderata del professore, prova a ubriacarsi di tecnica senza prima avere una cultura, non saprà comunicare i suoi risultati, non sarà in grado di affrontare una conversazione di alto livello e non disporrà di quei minimi strumenti di intelligenza critica necessari a mettere in discussione il proprio lavoro, presupposto ineludibile per ogni vera maturità professionale.

Nessuno mette in discussione il valore di C+ o di Java. Con un piccolo caveat: tra 20 anni entrambi saranno ampiamente obsoleti, mentre il pensiero critico insegnato da Kant o la mentalità storica di Tucidide forniranno ancora le basi per affrontare ogni tipo di ragionamento (ivi compresi quelli sull’archeologia di C+), e così ancora per qualche migliaio di anni. Se e quando Boldrin e i suoi epigoni si avvedranno di questo dettaglio, gli sarà finalmente chiaro il loro esiziale errore.

Polidori

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