Keynes è morto, viva Keynes!

Poco prima delle elezioni, ebbi una lunga conversazione epistolare con un caro amico professore di storia americana in una prestigiosa università italiana. Costui mi lasciò completamente di stucco quando mi disse che avrebbe votato il PDL (B-e-r-l-u-s-c-o-n-i!) e che avrei fatto bene a leggermi Krugman (P.Krugman, Fuori da questa crisi, adesso! Garzanti, 2012) per capire il perché.

Naturalmente l’ho fatto.

Quello di Krugman è un tipico saggio scritto da un americano per (molti) altri americani: pochi concetti ripetuti in maniera compulsiva, periodi brevi, keywords, il tutto condito da motti di spirito e un fastidioso tono amicale. Superato l’impatto iniziale da prima lezione di catechismo, acuito dalla mancanza di bibliografia (proprio non c’è) e dal fatto che delle 14 (quattordici!) note presenti nel libro 13 siano dei links internettiani, il testo offre comunque diversi spunti di riflessione. L’idea di base del nostro non è nuova e può essere riassunta in poche righe: dal momento che la crisi attuale si configura come una “trappola di liquidità” (i denari ci sono ma tutti hanno paura di spenderli), è sufficiente che qualcuno dia una forte spinta iniziale di spesa per rimettere in moto gli ingranaggi della crescita, e quel qualcuno non può che essere il governo. Finis, davvero non c’è altro. È il keynesianismo, solo con qualche piccolo aggiustamento dovuto al non trascurabile fatto che l’economia di oggi non sia esattamente identica a quella degli anni ’30. Ma vediamo ciò che del libro convince e cosa non convince.

L’idea che l’entità del debito sia in qualche modo meno importante della sua sostenibilità, sia in termini assoluti (come per gli USA) che relativi al PIL (come per il Giappone) è ormai pacificamente accettata, come pure che la sovranità monetaria (leggasi poter svalutare) e la possibilità di agire sui tassi siano leve importanti per poter gestire situazioni di crisi. Con tali premesse la formula keynesiana potrebbe essere utilmente applicata almeno negli Stati Uniti, dal momento che in passato, pur con diverse condizioni, ha funzionato. Non sono un economista e non conosco così bene gli USA da contraddire un Premio Nobel per l’economia, dunque mi limiterò a suscitare delle obiezioni per il contesto europeo in generale, e italiano in particolare.

Qui, da un lato le nazioni dell’Unione Europea che hanno aderito all’euro non dispongono più di sovranità monetaria, dunque non possono svalutare, dall’altro i poteri della BCE sono ancora piuttosto limitati rispetto a quelli della FED. Nell’estate del 2012 l’azione di Draghi, vigorosamente sollecitata dal prof. Monti, è stata determinante nel dotare la prima di strumenti (come lo «scudo anti-spread») adatti a contenere l’attacco dei cd. bond vigilantes, ma è evidente che c’è ancora molto da fare, soprattutto nel rendere questi strumenti più rapidi ed efficaci. Non solo: le nazioni più in crisi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, riunite sotto il simpatico acronimo GIPSI, che è pur sempre meglio di PIGS, pure usato) hanno un debito eccessivo sia in termini assoluti che relativi al PIL, e questo è un fatto. E applicare una teoria dai dubbi esiti ma che tuttavia comporta certamente un consistente aumento del debito in contesti in cui questo è già ampiamente insostenibile può essere un’operazione velleitaria, come pure il nostro velatamente ammette (p.158).

A margine di questa osservazione – che già basterebbe a liquidare come difficilmente applicabile la ricetta neokeynesiana in Italia – ho notato altre due (gravi?) mancanze nel saggio di Krugman:

  1. Non si fa alcuna menzione del concetto di solidarietà intergenerazionale. Il costante aumento del debito insito nelle politiche keynesiane comporta benefici nel breve termine ma può portare a conseguenze disastrose nel lungo periodo, come proprio il caso italiano esemplifica. Chi oggi ha 60-70 anni ha vissuto gli anni centrali della propria attività lavorativa con tasse al 33% e inflazione all’8%: ha quindi potuto acquistare una casa vedendo il proprio mutuo evaporare in pochi anni a colpi di inflazione e costituire significativi risparmi. Oggi le tasse sono al 50% e l’inflazione al 2,5%, e il debito costituito in maniera spensierata negli anni ’70-’80 impedisce allo stato di uscire da questo cortocircuito. Tale situazione si è potuta determinare proprio per le politiche short-term di quegli anni che, oltre a  non tenere in alcun conto le generazioni future, gli scaricarono volentieri addosso l’enorme debito necessario a sostenere il livello di benessere della «Milano da bere». Krugman non solo sembra sottovalutare la differenza sostanziale nelle modalità di formazione del debito tra le economie europee e quella statunitense, ma etichetta addirittura il long-termism come “abdicazione intellettuale” (sic! p.24).
  2. Ho trovato piuttosto sorprendente (anche per la trattazione sull’economia degli USA) che in tutto il volume lo spazio dato alla Cina consti di una riga (p.247). Eppure, specialmente dal punto di vista europeo, non mi sembra irrilevante che in una economia globalizzata esista un grande stato esportatore che non rispetta alcun tipo di regola sull’impatto ambientale, le condizioni di lavoro o la qualità del prodotto, e che tuttavia è in grado di determinare una reale condizione di concorrenza sleale rispetto alle industrie che invece sono tenute al rispetto delle regole. E non è irrilevante che questa nazione re-investa gli ingenti capitali così guadagnati fagocitando le imprese europee in crisi, così come non è irrilevante il suo ruolo nella lotta per le materie prime e nella fluttuazione del prezzo delle commodities. Può essere che questo fattore evidentemente esogeno non sia di nessun disturbo alla politica keynesiana? Eppure a me sembra evidente che se non ci sono più imprese (perché sono tutte cinesi) il governo può immettere tutta la liquidità che vuole, ma al massimo otterrà altra esportazione di valuta pregiata.

In conclusione, la mia sensazione è che la ricetta neo-keynesiana può forse funzionare negli USA (dove in effetti sta funzionando, stando almeno agli indici di borsa) ma di certo non in Europa, e tantomeno nel gruppo GIPSI. Che poi il berlusconismo fosse una declinazione possibile di un neo-keynesianismo illuminato, questo è pure tutto da dimostrarsi (qualcuno ci crede?) e, soprattutto, è un’altra storia.

 

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