Rileggendo Gobetti
Per un bizzarro accidente della storia, un’ottima spiegazione per cui il governo Letta non è riuscito a tagliare la spesa pubblica, né sembra destinato a farlo nel prossimo futuro, si può trovare in un pezzo datato maggio 1923:
«Una volti venuti sul terreno della legislazione sociale la politica diventa un perpetuo ricatto in cui a eterne concessioni fanno eco eterne richieste senza che s’introduca nella lotta politica un principio di responsabilità. Lo Stato viene corroso dal dissidio tra gverno e popolo: un governo senza autorità e senza autonomia perché astratto dalle condizioni economiche effettive e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione sociale». (Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, p.25)
Ora come allora, la responsabilità del disastro sociale ed economico non risiedeva tanto (o solo) nella classe politica, quanto nell’infido sodalizio tra la politica e ampie fasce di cittadinanza che dalla politica ottengono a vario titolo vantaggi e favori: posti di lavoro del tutto inutili in primo luogo, ma anche scorciatoie amministrative, giustizia su misura, legislazione a difesa della propria categoria (di norma scapito di altre, o almeno del libero mercato).
È del tutto evidente che tali fasce elettorali, le stesse che Gobetti definiva “educate al parassitismo e all’utilitarismo” (p.62) non sosterranno mai qualsivoglia iniziativa politica volta a modificare lo status quo dal quale traggono vantaggi materiali. In altri termini, tali ampi segmenti di cittadinanza non saranno mai liberali, giacché il liberalismo è «obiettivo e fedele a canoni di indagine teorica prima che a esigenze di interessi» (p.118), sicché
«In Italia, dove le condizioni sia economiche che politiche sono singolarmente immature, le classi e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza.» (La Rivoluzione Liberale, p.45)
Dopo novant’anni, dunque, nihil sub sole novum. O forse si: sebbene Gobetti pensi al liberalismo come all’arte del saper scegliere la cosa giusta e non quella che soddisfa il più ampio segmento elettorale, anche al pragmatismo esiste un limite in cui il regolo per governare il principio di competenza è affidato a chi, per sua forma mentale, è capace di una visione d’insieme:
«L’uomo di stato starà attento al consiglio dell’economista, ma lo subordinerà agli altri fattori storici. Il merito di certa economia liberista consiste essenzialmente nella franca rinuncia al giudizio conclusivo: l’economista rimane fedele al suo limite scientifico, suggerisce criteri di buona amministrazione, espone i risultati della sua esperienza isolata e ristretta secondo ipotesi e astrazioni quasi matematiche, o secondo misure semplicemente descrittive. L’economista constata l’esistenza di un problema finanziario, burocratico, monetario, offre l’anatomia dei processi di produzione della ricchezza in un determinato momento storico: ma la sua osservazione resta sul terreno delle premesse e dei sintomi. L’istituire tra questi fatti una gerarchia e una coordinazione è già il compito dello storico e del politico.» (La Rivoluzione Liberale, p.130)
Pragmatismo, dunque, ma primato delle idee: “Solo le aristocrazie e le minoranze sanno realizzare la democrazia” (p.135). Il liberalismo, appannaggio di una minoranza (che tale è destinata a rimanere) per vincere ha solo una possibilità, quella di parlare – e torniamo all’oggi – a chi è stritolato da un sistema di connivenze e di interessi incrociati che, elevato a sistema, ha l’unica finalità di perpetuare se stesso. Per riuscirci servono technè e logos incarnati nell’immaginario Gobettiano rispettivamente dall’economista e dallo storico.
Mentre Gobetti scriveva parte di queste parole si preparava la Marcia su Roma. Saremo in grado questa volta di imparare la lezione?
Valerio Polidori
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