Lessico Formista (post semiserio)

Le parole sono importanti, ripete ossessivamente Nanni Moretti in “Palombella rossa”. Lo sono ancor di più per noi in quanto elementi sintetici descrittivi di un’idea. Anche nell’ambito delle riforme istituzionali, una parola deve additare in maniera univoca un concetto, un’idea, una… Forma.

In quest’ottica ci sono parole cui difficilmente un “Formista” farà ricorso: in passato, ad esempio, ci siamo occupati dell’italico pasticcio “liberale, liberista e libertario”. Quest’oggi mettiamo sul nostro piatto iconoclasta altre espressioni di cui auspichiamo una rapida estinzione:

– Posti di lavoro. Con un tasso di disoccupazione al 12,5% (in aumento) una delle principali occupazioni della retorica politica riguarda le ricette per “creare posti di lavoro”. Il sintagma tradisce un elemento tipico della cultura italiana: che il posto sia più importante del lavoro. Non importa se non si produce un accidente, come accade nei mille stipendifici pubblici o nelle partecipate e municipalizzate, l’importante è che si difenda il posto. Inutile dire che questo retaggio porta chiaramente l’impronta dell’azione dei sindacati degli ultimi 40 anni, che hanno reso l’Italia non solo un ambiente dotato di scarsa o nulla flessibilità del mercato del lavoro, ma soprattutto ipocrita nella sostanza. Nel mondo anglosassone — piaccia o no, non importa — una persona è giudicata per il suo apporto alla società soprattutto in termini economici, in una parola per ciò che produce. In Italia, un certo socialismo nel quale ci siamo più o meno coscientemente crogiolati nell’ultimo trenennio del secolo scorso, ha reso questo metro inaccettabile. Forse è giusto, ma il naturale esito di questo rifiuto è una cultura in cui il “posto” è slegato dalla sua reale utilità ivi compresa, paradossalmente, quella sociale. Un dirigente di una grande partecipata, che deve la sua posizione ad una rete di conoscenze o “spinte”  di natura politica, è assai più considerato di un insegnante di lettere in un liceo di periferia, anche se il valore che crea il secondo è enormemente superiore a quello che crea il primo. Un Formista, dunque, non parlerà di “posti di lavoro” ma solo di lavoro.

Paese. Gli italiani sembrano avere una singolare predisposizione nel non prendere sul serio quasi nulla di ciò che riguarda la loro nazione. Non è detto che si tratti di una reazione alla retorica del ventennio, perché nel 1950 o nel 1960 quando uno diceva “il paese” il pensiero andava a un borgo arroccato su una montagna o disteso sulle rive di un lago, ma non certo all’Italia intera. Più o meno con le prime avvisaglie del lessico politically correct parole piuttosto nobili come “stato” e “nazione” (non parliamo poi di “patria”!) sono state gradualmente sostituite dall’invadenza semantica del “Paese”, oggi spesso ulteriormente abbrutito da espressioni come “Sistema Paese” o “il Paese reale”, che peraltro non ha a che fare con i Savoia. Eppure stato, nazione, patria esprimono tutta l’ampia gamma di significati necessari a parlare dell’Italia, delle sue ricchezze e delle sue miserie, senza doversi rifugiare come per una paura ancestrale in una parola nata per significare altro.

Movimento. Un tempo c’erano i partiti. Quando poi questi esaurirono ogni possibile credibilità per la considerevole mole di nequizie perpetrate ai danni delle generazioni presenti e future, ci si cominciò a chiedere se fosse possibile dare vita ad aggregazioni politiche con una diversa denominazione. Per fare qualche esempio, Forza Italia e Lega nord erano e sono partiti dal punto di vista giuridico, ma non si chiamano partito, mentre “girotondini”, “occupay Wall Street”, “popolo viola”, “indignados” denotano altrettante aggregazioni che, nel nome e nei fatti, rifuggono dall’idea tradizionale di partito. Oggi in realtà imperversa una nuova moda, quella del “movimento”, ideuzza fuggita da qualche stalla negli anni ’70 (ma allora c’erano i movimenti veri, come quelli sorti negli USA per porre fine alla guerra in Vietnam) e oggi resuscitata soprattutto dal Movimento 5 Stelle e dai suoi epigoni. Il paradosso è che dal prossimo anno, entrando in vigore una legge che obbliga i partiti (e solo i partiti) a pubblicare i bilanci e dotarsi di meccanismi di democrazia interna, chi non è giuridicamente un partito potrà usare la stessa opacità dei partiti degli anni ’80, gli stessi dei quali oggi rifugge il nome. A margine di queste considerazioni, verrebbe da pensare che tutte le organizzazioni che sono giuridicamente dei partiti ma che oggi parlano di se stessi in termini di “movimento”, come Fermare il Declino o Fratelli d’Italia farebbero bene a deporre l’ipocrisia e, semmai, a cercare di aggiustar la fama dell’istituzione-partito piuttosto che rifugiarsi in scorciatoie semantiche.

La lista, naturalmente, potrebbe continuare. Chi ne ha voglia può indicare altre parole da cancellare commentando questo post nel blog: Il commentatore più brillante vincerà un posto di lavoro in un Movimento del Paese reale.

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