Riforme: tempus fugit

Stamane il Corriere della Sera ricorda (pp. 1-3) ancora una volta quello che da sempre abbiamo denunciato essere il più grande problema che affligge da decenni lo stato italiano. Della Loggia stila un lungo elenco di quelli che — fuor di ogni retorica — egli definisce come i “veri poteri forti”. La lista include Consiglio di Stato, Tar, Corte dei Conti, alta burocrazia, altissimi funzionari delle segreterie degli organi costituzionali, vertici delle fondazioni bancarie, CdA delle partecipate. A questi aggiungiamo volentieri anche i piccoli o grandi gruppi di interesse locale che riescono ad agire in maniera concorrente allo stato attraverso la legislazione regionale.

In questo vasto novero di resistenze ad ogni innovazione volta a modificare lo status quo, l’alta burocrazia gioca un ruolo centrale. A titolo di esempio, della vasta ed eccezionalmente rapida opera legislativa del governo Monti, la burocrazia ha fatto scadere i termini per varare ben 148 decreti attuativi, rendendo completamente vana buona parte dell’operato di quel governo, mentre le norme salgono a 852 se vogliamo comprendere i regolamenti necessari per rendere operativi i provvedimenti degli ultimi due esecutivi.
A noi pare di palmare evidenza (e già lo dicevamo in tempi decisamente non sospetti) che l’unico modo per operare il necessario cambio di passo non consista né in un brillante programma di governo né in una (pur necessaria) nuova legge elettorale, ma in una drastica, sostanziale e coraggiosa riforma delle architetture stesse dello stato.

Lo schema essenziale dell’idea che abbiamo lanciato lo scorso settembre prevedeva, tra l’altro, l’abolizione di una camera e la rimodulazione dell’altra sul modello del cd. “Senato delle regioni”, per legare nuovamente la rappresentanza politica al territorio. L’elezione diretta di un presidente con funzioni di capo dell’esecutivo obbediva invece alla sempre più evidente richiesta da parte della cittadinanza di poter indirizzare in maniera semplice il mandato finale della delega politica senza dover passare per gli accordi di palazzo. Basterebbe questo, senza entrare nella complessa proposta di Forma nell’utilizzo della scienza delle ontologie per separare e governare i principi di competenza e rappresentanza, per iniziare un percorso riformista dal carattere radicale, la cui urgenza è sottolineata dal forzoso immobilismo degli ultimi lustri.

Che il governo Letta, pur forte di un chiaro mandato orientato alle riforme istituzionali e di una precisa deadline indicata da Napolitano, possa riuscire nell’impresa è alquanto dubbio. Innanzitutto perché, con buona pace del ministro Quagliariello, le Riforme Istituzionali sono materia parlamentare e non governativa, dappoi perché un governo che si regge su un manipolo di senatori non sembra avere né la forza né l’autorevolezza per un’opera complessa e di ampio respiro come le riforme di carattere costituzionale.
Di certo i 18 mesi indicati come ragionevole termine per finalizzare almeno le riforme essenziali stanno volgendo rapidamente al termine senza che sia ancora chiaro se almeno una parte degli obiettivi sarà conseguita. Considerata la costituzionale abulia del governo e il fatto che almeno sulla legge elettorale qualcosa bisognerà fare per causa di forza maggiore, che sul resto si faccia qualcosa è lecito almeno dubitare.

Polidori

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