Sindacato e manganelli

Si moltiplicano in queste ore interpretazioni e commenti sulle “quattro manganellate” (così Cruciani) elargite a esponenti e manifestanti della FIOM nella recente manifestazione romana. Accanto alle ormai ricorrenti ricostruzioni della forzatura dei blocchi (così Alfano) e della carica immotivata (così Landini), vorrei qui proporre una terza interpretazionee una più vasta riflessione.

I sindacati, insieme alla politica, stanno vivendo da anni una crisi di popolarità senza precedenti. L’inefficacia della loro attività, volta vieppiù alla miope difesa del “posto” piuttosto che alla ricerca di strategie per promuovere nuove occasioni di occupazione, unita alla loro vocazione sempre più politica e sempre meno strumentale alla loro primigenia funzione, hanno contribuito a questo rapido declino. Di più, buona parte dei sindacati non ha più neanche la legittimazione formale a parlare a nome dei lavoratori, dal momento, ad esempio, che il 52% degli iscritti alla CGIL è costituita da persone che neppure lavorano, cioè da pensionati. Non è una caso che i giovani, sempre più coscienti della flessibilità di un mercato del lavoro ormai globalizzato e alla ricerca di meritocrazia, non riescano più a comprendere le “battaglie” classiche del sindacato, fondate su una contrapposizione di classe che nel migliore dei casi appartiene al retaggio culturale del secolo scorso. In questo scenario si inserisce poi la lotta intestina al sindacato, che vede da una parte la FIOM, in ascesa grazie alla maccchina mediatica di Landini, e dall’altra la triade sindacale in uno stato pre-comatoso e in crisi di iscritti.

E ora l’occasione: centinaia di operai delle acciaierie a rischio licenziamento, circondati dalla solidarietà di tutte le categorie affini e che ogni giorno vedono approssimarsi il medesimo scenario in una crisi di cui non si scorge la fine. La strategia della FIOM, d’altro canto, non pare diversa da quella della triade. Pensare che l’Italia possa competere con i Paesi emergenti nella produzione e lavorazione dell’acciaio è, come minimo, un anacronismo. Pensarlo oggi, anzi, rasenta il criminale. Ma il sindacato, more solito, preferisce la difesa a oltranza di aziende decotte e di “posti” in cui non c’è più alcun lavoro da svolgere – rimane, cioè, solo la sedia – piuttosto che una sano impegno per la riqualificazione. Nessuno nega, infatti, che lo Stato (cioè la cittadinanza) debba in qualche modo assumersi l’onere di sottrarre quei lavoratori e le loro famiglie al baratro della disoccupazione, ma è del tutto evidente che ciò debba avvenire riqualificando il personale per nuovi contesti produttivi e non tramite cassa integrazione derogata sine die o, peggio ancora, tenendo artificialmente in vita aziende che dovrebbero semplicemente essere date in pasto al mercato.

Landini è sufficientemente intelligente da capire da un lato che la linea della FIOM è completamente sbagliata, dall’altra che i suoi iscritti non ne comprenderebbero una diversa, e allora ecco il colpo di genio. Agitare gli animi dei più facinorosi non è difficile quando si respira la disperazione, ugualmente facile costringere le forze dell’ordine a riportare la calma con il manganello. Bastano così “quattro manganellate” (ha ragione Cruciani!) e un’alta esposizione mediatica a trasformare i lavoratori in martiri e sublimare gli alti valori della FIOM di dignità, lavoro e qualsiasi altra amenità che non tenga minimamente conto della realtà storica del 2014.

Ciò che trovo davvero disgustoso è che sembra che Landini abbia coscientemente strumentalizzato la disperazione dei suoi iscritti non tanto per promuovere una battaglia giusta, quanto per infliggere un altro colpo alla triade (decotta quasi più delle Acciaierie di Terni) ed elevarsi finalmente a unica credibile alternativa alla signora Camusso. La lotta egemonica interna ai sindacati, dunque, mi pare la più plausibile chiave di lettura degli – in realtà piuttosto insignificanti – episodi di Roma.

A margine, due situazioni cristallizzate: da una parte il sindacato e le sue obsolete battaglie ideologiche, dall’altra un governo che non dispone di mezzi materiali e intellettuali per affrontare il problema con un approccio nuovo, e si limita all’applicazione dei vecchi ammortizzatori sociali nei limiti delle sue ormai scarse disponibilità finanziarie. Le conseguenze sono esiziali. In primo luogo, la mancanza di una strategia vera per il futuro. Per quanto tempo la cittadinanza già duramente provata da un livello impositivo fuori misura dovrà sobbarcarsi il costo di tenere in vita interi segmenti industriali la cui esistenza non ha più senso in un mercato globale? Cosa stanno facendo sindacato e governo per promuovere la riqualificazione di chi inevitabilmente perderà il lavoro verso un qualsiasi settore produttivo in espansione (agro-alimentare, alta tecnologia, lusso)? Nella risposta a queste domande si cela una delle cause del declino di questa nazione.

Polidori

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