Riforma costituzionale (3/3)

In quest’ultimo post vorrei trattare alcuni aspetti secondari della Riforma, partendo sempre dalle critiche che generalmente vengono mosse dai comitati del NO. Nelle prossime ora seguirà un post in cui Forma prenderà una posizione finale il più possibile condivisa.

1. Benaltrismo

Uno dei ritornelli più frequenti in questi giorni, in maniera del tutto trasversale è «non siamo contrari alle riforme, ma a questa Riforma. Si doveva fare diversamente perché ben altri sono i punti sui quali intervenire». Il fatto curioso è che i principali sostenitori di questa vulgata siano D’Alema e Berlusconi, dunque proprio coloro che hanno tentato una riforma costituzionale di vaste proporzioni senza riuscire neppure ad avvicinarsi all’approdo finale. Non si vede come costoro (o chi per o dopo di loro) potrebbero riuscire in una nuova riforma quando i loro governi in molti anni non sono riusciti neppure ad avvicinarsi al risultato cui è prossimo il governo Renzi. Né come potrebbero costruire una riforma “senza compromessi” non disponendo di una maggioranza parlamentare tale da rendere possibile un iter non dico lineare ma almeno non costellato da veti incrociati continui. Il governo Renzi è il terzo più longevo della storia della Repubblica e, pur non godendo di una maggioranza schiacciante, si giova di una leadership coesiva quanto basta per portare avanti un progetto di riforma così vasto e complesso. Non solo la storia dimostra che un’occasione del genere non si ripeterà, ma anche il buon senso dovrebbe suggerirlo, specialmente con questa legge elettorale (il Mattarellum, attualmente) e in questa congiuntura in cui il duopolio cdx/csx non esiste più.

Naturalmente esistono anche le ragioni dei benaltristi. È di palmare evidenza che il testo finale della Riforma sia esito di una negoziazione, e ciò è particolarmente chiaro sul Senato, ma si sottovaluta forse il fatto – che tuttavia ha del miracoloso – che l’oste abbia approvato di trasformare la propria osteria in un banchetto ambulante. Certo, sarebbe stato molto più semplice sotto ogni aspetto abolire il Senato tout court, come pure abolire le Regioni a Statuto Speciale, salvo che per fare queste cose servono i voti dei diretti interessati, i quali stranamente non mostrano alcuna propensione a sparasi nei piedi. Di questi principî elementari di realpolitik i volgarizzatori del NO e partigiani del benaltrismo manifestano una singolare amnesia. Eppure un futuro governo eletto con il nuovo assetto costituzionale avrebbe delle chances in più per affrontare quanto rimasto fuori dalla Riforma per ragioni di forza maggiore, anche questo si dimenticano di dire.

2. Percezione di immobilismo

A margine di quanto la stampa economica internazionale abbia ricamato sulle possibili ricadute sui mercati di un possibile esito negativo del referendum, una cosa è certa: se vince il NO, il Parlamento avrà lavorato due anni invano, e il messaggio che verrà percepito dagli osservatori stranieri è che in Italia non è possibile cambiare nulla a meno che non arrivino “gli elicotteri della Troika”, come fu per la Grecia.

Le ricadute di questo messaggio, dunque, potrebbero essere indirette: una posizione indebolita in termini di negoziazione nelle sedi europee (e Draghi non può eternamente coprire il nostro immobilismo), un minore appeal nell’attrarre grandi gruppi o investitori a produrre reddito in Italia (l’instabilità politica non piace all’economia), per non parlare delle immediate ricadute politiche.

Quest’ultima fattispecie merita qualche parola: una possibile vittoria alle politiche del M5S  conseguente al fallimento del referendum aprirebbe due possibili scenari:

– Con il Mattarellum il M5S non avrebbe la maggioranza assoluta e, dal momento che il M5S non ha mai stretto alleanze con nessuno, sarebbe impossibile formare un governo;

– Con l’Italicum o una qualsiasi legge elettorale con premio di maggioranza, il M5S forse potrebbe arrivare alla maggioranza assoluta ma, a giudicare dalla notevole instabilità interna al Movimento e dai primi risultati delle più significative esperienze di governo (Roma), c’è da augurarsi che ciò non accada.

 

3. Il pasticcio del Titolo V

In effetti questo non è affatto un aspetto marginale, ma lo è diventato nella comunicazione perché si tratta di uno dei punti più complessi e tecnici della Riforma. Come è noto, l’ultima riforma del Titolo V della Costituzione ha introdotto uno strano federalismo che ha consentito alle Regioni (a tutte le Regioni!) di poter decidere autonomamente in materia di politica energetica, di sanità, e di molte altre cose. Specialmente sul primo punto, il risultato è che è stato impossibile avere una politica energetica condotta su base nazionale, il che per un Paese che non produce la maggior parte dell’energia che consuma è semplicemente autolesionista in termini di capacità di negoziazione con i produttori, organicità e razionalità della distribuzione, e altro ancora. Anche per il cittadino dal punto di vista normativo si è creato un caos, dal momento che – giusto per produrre un esempio – la frutteria di Palermo e quella di Genova hanno bisogno di un iter autorizzativo diverso. Gli esiti sono così paradossali che proprio in queste ore il Veneto sta approvando una legge regionale per ottenere lo statuto di minoranza linguistica, con annesse quote protette ai concorsi pubblici per la riserva indiana veneta: un ritorno agli stati pre-unitari privo di senso nel 2016.

La cosa interessante è che sono gli stessi fautori della vecchia riforma del Titolo V ad essere i più pentiti, dal momento che hanno toccato con mano quanto le dispute sulla materia concorrente Stato/Regioni abbia intasato i tribunali e bloccato lo sviluppo soprattutto al Sud. Per molti, dunque, il vero motivo per cui questa Riforma andrebbe votata, è proprio il tentativo di porre rimedio a questa inefficace forma di federalismo che così pessima prova di sé ha dato nell’ultimo decennio.

 

Ci sarebbero ancora altri aspetti da trattare, ma giunge ormai il tempo per tirare le somme. Lo faremo nel prossimo e conclusivo post.

Ad maiora!

 

 

Polidori

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