FiD e le risposte da dare

Alla vigilia dell’ultima consultazione che completerà la dirigenza del partito, alcune fondamentali domande aspettano la presidenza e la futura Direzione Nazionale, questioni legate all’identità di Fermare il Declino che necessariamente determineranno il suo bacino elettorale.

Destra o sinistra?

In Italia sembra che la distinzione classica delle democrazie occidentali dove l’alternanza tra conservatori e progressisti è legata perlopiù a una diversa visione dello stato (ad es. leggero o pesante) non esista o abbia comunque assunto tratti diversi, di natura ideologica e identitaria. Guardando retrospettivamente all’azione dei due maggiori schieramenti della cosiddetta “seconda repubblica”, infatti, ci si accorge che nessuno dei due ha mai promosso nei fatti la visione di uno stato leggero e, anzi, nel caso del PDL ha fatto il contrario di quanto prometteva, con un conseguente drastico innalzamento del debito per sostenere i significativi aumenti di spesa corrente. In altre parole, in Italia il concetto di destra e sinistra sembra rimasto ancorato a categorie legate alla lotta di classe e alla contrapposizione ideologica tra segmenti della società (ad es. operai e imprenditori) che si sperava morta e sepolta nel secolo scorso.

Stanti queste premesse, FARE, non può lasciarsi ingabbiare in questa contrapposizione, ma deve rivendicare quel primato delle idee secondo cui di fronte a un problema non si cercherà la soluzione “di sinistra” o quella “di destra”, quella che tutela i lavoratori dipendenti o che protegge questa o quella categoria, ma semplicemente la soluzione migliore, quella, cioè, tecnicamente preferibile sul piano dell’efficacia e dell’efficienza nell’ottica del bene comune. Questa forma mentis dovrebbe costituire l’essenza del pragmatismo da cui il partito prende il nome e il motore per il suo afflato riformatore. In quest’ottica, è del tutto conseguente che l’offerta di FARE si dovrebbe rivolgere ai riformatori di destra quanto a quelli di sinistra.

Quale orizzonte di valori?

Negli ultimi anni abbiamo assistito passivamente alla formazione di un cliché secondo cui il liberalismo sia in realtà un modo astuto per camuffare la volontà di abbattere lo stato sociale. Su questa idea, del tutto infondata, se ne è innestata un’altra: che il liberale sia ipso facto anche libertario – nel senso radicale del termine – e che non abbia in fondo alcun paradigma etico di riferimento (ne ho parlato estesamente in quest’articolo, cui rimano il lettore).

Tale idea, che ha radici antiche nella classica antinomia tra stato etico e stato liberale, mi sembra anch’essa sostanzialmente superata. È possibile proporre una visione dell’uomo e della società autenticamente rispettosa degli spazi privati ma che sia al contempo in grado di affermare un certo numero di valori fondanti e irrinunciabili, capaci di informare le istituzioni e le stesse architetture dello Stato? Si è parlato di merito e competenza, ma non basta. Per comporre un’offerta politica completa, occorre almeno riflettere – tanto più in una nazione con un forte elettorato cattolico – su quale visione si propone dei diritti civili (ius soli, politiche d’immigrazione, etc.), della vita (eutanasia, ricerca su staminali, etc.), della famiglia (unioni civili, divorzio breve, politiche della famiglia, etc.). Anche non fornire queste risposte equivale ad una risposta, posizione che pure molti preferirebbero e che avvalorerebbe il teorema secondo cui il liberale abdica alla formulazione di un paradigma etico, idea che tuttavia a mio avviso è completamente inaccettabile.

Autonomia contro il provincialismo

I dati di febbraio dicono chiaramente che Fermare il Declino abbia avuto successo e radicamento soprattutto nel Nord-Est. Non è difficile comprenderne le ragioni, come pure la necessità di superare i limiti che, determinando questa situazione, rischiano di condurre il partito ad un provincialismo incompatibile con la vocazione nazionale ed europeista del manifesto e dei 10 punti del programma.

Due sono, a mio avviso, le direttrici: da un lato una forte operazione identitaria che, definendo un preciso universo di valori, liberi l’elettore potenziale dall’idea che FARE sia una costola della School of Chicago, interessata unicamente ad economia e finanza. Dall’altro, consentire alle regioni e più in generale al territorio la massima autonomia gestionale, economica e logistica per organizzare attività a livello locale e favorire così il radicamento sul territorio. Questo principio vale soprattutto per le regioni del centro-Sud, lontane dal centro amministrativo e decisionale e che hanno potenzialità ampiamente inespresse.

Qualunque Direzione Nazionale emerga dalle prossime elezioni (e c’è da sperare seriamente che si guardi meno alle logiche di cordata e più alle idee e alle competenze), la base degli aderenti, si attende queste risposte intorno alle quali ritrovare la compattezza messa a dura prova dalle tensioni pre-congressuali.

 

Valerio Polidori      (già candidato alla DN di FARE)

 

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