Liberale o libertario?

V’è una sorta di morbo che affligge la semantica politica contemporanea e che condanna chi si riconosce nei valori dell’economia di mercato e nella tutela delle libertà individuali dall’invadenza dello stato a non avere una parola che descriva in maniera efficace la propria Weltanschauung, il modo in cui vede il mondo e, conseguentemente, l’uomo.

Come quella fatale di Teutoburgo, anche la selva terminologica che insiste su questi concetti non può che portare guai. In primo luogo la convinzione diffusa secondo cui «liberismo» in fondo non sia che un raffinato camouflage con cui un cattivo ragazzo vuole travestire una significativa contrazione dello stato sociale a vantaggio dell’economia di mercato e, quasi recta via, della classe imprenditoriale e industriale. Tale immagine del liberismo è totalmente inaccettabile sia sul piano logico che su quello storico: possono esistere – e sono esistiti – molti modelli di stato liberale ma in ogni caso lo spazio attribuito allo stato sociale sarà funzione della rappresentazione di un certo paradigma etico, non del liberismo in sé.

Che, tuttavia, tale assunto non sia così evidente lo dimostra l’appiattimento dell’idea liberista insito nell’abusata espressione “liberale, liberista e libertario” a cui pure molti fanno ricorso, specialmente quando non hanno molto da dire. Questa fattispecie, soprattutto, è più subdola, dal momento che suggerisce l’implicazione che da un lessema ne scaturisca – quasi a mo’ di fungo – l’altro, e così via. Tale espressione sembra, infine, stabilire un nesso secondo cui l’unico esito possibile di uno stato liberale nell’ambito dell’etica sociale passi attraverso la costituzione di una persona teorica edificata con un modello bottom-up o, se preferiamo, di carattere sostanzialmente relativista.

In Italia, dove l’aggettivo «libertario», grazie anche alla vasta predicazione radicale, ha assunto un significato piuttosto distante dall’analogo lessema anglosassone, sembra infatti essersi radicato uno strano assioma secondo cui l’ethos è costituito in fondo dalla semplice somma algebrica dei comportamenti di un certo gruppo sicché, non esistendo affatto dei princìpi immutabili, lo stato non ha alcun diritto di invadere uno spazio etico che – a torto o a ragione – viene percepito come la sfera privata del cittadino.

Prima facie, il ragionamento potrebbe anche funzionare. Tuttavia, quando usciamo dal nostro piccolo italico giardino e apriamo il medesimo ragionamento alla complessità del mondo, qualche problema emerge. Facciamo un esempio: in Italia nessuno avrebbe difficoltà ad ammettere che un principio etico fuori discussione sia quello secondo cui non è lecito uccidere nessuna persona umana, salvo il caso di autodifesa. Ebbene, proviamo a porre la questione della liceità dell’uccisione in uno stato che intenda la Shariʿah come fonte di diritto positivo a causa di un radicato ethos di ispirazione islamica radicale. Un approccio bottom-up alla costruzione della persona teorica dello stato in questo mondo conduce al principio che, ad esempio, non solo è lecito lapidare un’adultera, ma anzi può essere necessario farlo per il bene della collettività.

Se siamo disposti ad abdicare all’idea che possano esistere alcuni princìpi etici irrinunciabili, quei princìpi che servono a corroborare una certa visione del mondo e dell’uomo nella quale ci identifichiamo in quanto uomini, possiamo accettare anche l’appiattimento che fa discendere il libertarismo (inteso italico more) dal liberismo. In tutti gli altri casi occorrerà, viceversa, fermarsi e cominciare a ragionare sul senso delle parole.

Possiamo, ad esempio, pensare ad un’etica sociale, financo minima, che sia esito di un processo top-down, in cui un principio razionale di autoconsapevolezza conduca alla formulazione di una persona teorica di un moderno stato occidentale di stampo liberale? Non ho idea di quanto la questione sia mai stata affrontata in questi termini, eppure è evidente che essa ponga il problema di una sintesi di un processo identitario dell’Occidente la cui urgenza è resa manifesta dal sorgere di habitus etici differenti e, a tratti, in aperta contrapposizione a quello figlio del pensiero occidentale post-illuminista: se il radicalismo islamico può dar da pensare, il modello cinese non pare più rassicurante.

Coloro che si proclamano liberali nei riguardi del mercato e delle leggi economiche spesso cadono in confusione quando si passa a trarre le conseguenze di tale approccio nei riguardi dell’etica sociale. Non è detto che esista un modello che possa in questo caso rappresentare efficacemente la proiezione dell’idea liberista, ma mi sembra evidente che l’appiattimento dell’idea liberale su quella libertaria non sia più accettabile (ammesso che lo sia mai stato), e non è che affermare che «non c’è verità» sia un atteggiamento intellettualmente meno dogmatico di quello che propone ciò che allo stato dell’arte ci sembra essere la verità.

Una cosa è chiara: la questione non è oziosa e coinvolge tutti quelli che si dicono liberali, specialmente coloro che rifiutano l’etichetta di “libertario”.  Di fronte a chi ci interroga sulla nostra visione del mondo, siamo  così chiamati ad una presa di posizione, un semplice atto di autocoscienza, un’operazione identitaria necessaria e non più prorogabile.

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