I “professoroni” e la destra che non c’è

Ciò che trovo fastidioso, a tratti inquietante, della narrativa gialloverde, è il disprezzo, ormai elevato a paradigma, verso la classe intellettuale. Non c’è esternazione di Salvini in cui egli non prenda di mira i “professoroni”, sepolcri imbiancati che nella loro alterigia cospirano ai danni del popolo per fare invece gli interessi dei “poteri forti”, chiaramente banche o istituzioni europee, neanche a dirlo.

Se il nostro ha potuto costruire efficacemente tale retorica è per due motivi, strettamente interconnessi. Da un lato, il radicato odio della gran parte della popolazione verso l’eredità Monti-Fornero, dall’altra quella diffusa cultura dell’epifenomeno di cui tante volte abbiamo parlato secondo cui ogni realtà viene descritta in maniera volutamente ipersemplificata, facendo credere che la complessità non esista e che chiunque in fondo sia in grado di governare un paese da 1600 mld di PIL.

L’onestà (più declamata che praticata, probabilmente) e questo goffo patriottismo a tinte giacobine sembrano dunque essere la cifra dell’impegno grillo-leghista. Ora, mentre è probabile che Di Maio (o i suoi ragionatori remoti) pensi davvero ciò che dice, non ne sono così certo per Salvini, il quale cavalca abilmente il sentiment popolare ma, da leghista di lungo corso, dovrebbe ben sapere che per mandare avanti il vapore non solo i tecnici servono, ma serve pure che siano bravi.

Ma qui veniamo al problema numero due. Infatti, anche ammettendo che un giorno Salvini decida di rompere l’alleanza e passare all’incasso (come i sondaggi sembrano indicare), la sua retorica è ormai troppo compromessa con alcuni cliché (antieuropeismo – sovranismo – primazia della politica sulla conoscenza) perché la sua azione possa davvero produrre degli effetti positivi. Soprattutto perché in Italia – parliamoci chiaro – una destra liberale “thatcheriana” non è mai esistita. In un paese in cui lo stato entra fin sotto le lenzuola dei cittadini, pretendendo di gestirne (male) ogni aspetto della vita, l’unica vera cura sarebbe quella dimagrante:  non uno ma dieci passi indietro restituendo libertà di azione e di iniziativa economica ai cittadini. Negli ultimi 20 anni chi lo ha fatto ha ottenuto effetti immediati: Irlanda, Spagna, paesi baltici. In Italia si parla invece di nazionalizzare Alitalia, bloccare TAV e TAP, e di dirigersi disinvoltamente verso la “decrescita felice”. Invece di lasciare spazio e ossigeno a quanti hanno voglia o energie per fare impresa, si fa (ancora!) “redistribuzione”, leggasi spremere il terzo della popolazione che lavora per foraggiare il terzo di popolazione totalmente improduttiva (e/o parassitaria). In una mentalità anglosassone in tutto ciò non ci sarebbe nulla “di destra”, ma il paradosso italiano è proprio qui: la scelta non è tra progressisti o conservatori o tra socialisti e liberali, ma solo  solo tra socialisti A e socialisti B, il tutto ora condito dal rifiuto programmatico di ogni forma di competenza.

In questo panorama desolante sotto ogni aspetto, c’è un unico motivo di speranza. Le recenti visite rispettivamente di Draghi e di Moscovici fanno chiaramente intendere che la UE non si rassegna a perdere l’Italia a causa dell’ignoranza dei suoi cittadini e dell’irresponsabilità dei suoi politici. Una improvvisa (e calcolata) crisi degli spread e una provvidenziale calata di Mario Draghi possono ancora salvarci da noi stessi.

 

Polidori

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