La democrazia ai tempi di Di Maio (e non solo)

Per gestire – in una struttura ospedaliera italiana – le deiezioni di un degente, occorre una laurea di primo livello e superare un concorso pubblico difficilissimo, talché di norma chi vince è persona più che qualificata, con un curriculum di studi e professionale di tutto rispetto. Per fare il primo ministro di una nazione con più di 1.500 mld di PIL, invece, basta essere simpatico. Puoi essere, chessò, anche il venditore di lupini allo stadio o l’illetterato militante di un partito xenofobo che non ha mai lavorato un giorno della sua vita. Così, per fare due esempi a caso.

Sino ad oggi, sono questi i paradossi della democrazia rappresentativa che hanno attirato la nostra attenzione o, piuttosto, i nostri strali. Ma il recente “scandalo” – virgolette d’obbligo perché in fondo che con l’acqua calda si possono bollire le patate già lo sapevamo – del programma del M5S, furtivamente e drasticamente modificato dopo le elezioni senza che nessuno se ne avvedesse (anche questo non è strano, in fondo), ci obbliga a fare un passo in avanti.

Il mestiere dello storico è l’astrazione. E se ci mettiamo a distanza da questa faccenda ciò che vediamo subito è che in alcune democrazie sta accadendo qualcosa di nuovo, qualcosa che assomiglia alla risposta che un organismo mette in atto quando viene attaccato da un agente patogeno. Una reazione anticorpale.

In alcune democrazie, accomunate dalla breve storia o dal basso livello di scolarizzazione (includo chiaramente quello di ritorno del cd. “analfabetismo funzionale”) le urne hanno infatti prodotto degli esiti che hanno messo a dura prova il sistema. In Italia, dalla “mignottocrazia” di Guzzantiana memoria a Luigino de’lupini è stato un susseguirsi di personaggi improbabili sotto ogni aspetto, giunti alle più alte cariche dello Stato in ragione di una letale miscela di strategie di market(t)ing dell’offerta e di mancanza di basilari strumenti critici della domanda. A complicare la situazione c’è il fatto che una tale classe politica, anche se fornita di uffici tecnici, staff e centri studi, non riesce a orientarsi nella giungla di un sistema che era già complesso per quei signori della Prima Repubblica che lo edificarono.

Ciò che ne è emerso è insieme grottesco e inquietante. Preso atto che la democrazia rappresentativa ha ormai assunto questa prosa farsesca, il vertice del M5S ha fatto l’unica cosa sensata: ha dato al suo popolo l’illusione della democrazia diretta, e poi ha diretto la democrazia. Prima ha fatto eleggere alla vice-presidenza del senato un personaggio da mercato rionale, poi ha riscritto ex novo i programmi senza che nessuno delle decine di migliaia di attivisti se ne avvedesse. In una parola, ha usato le forme democratiche per camuffare (maldestramente) una autocrazia, l’unica cosa che può far girare una macchina altrimenti inceppata.

Se ci guardiamo intorno, di democrazie che per tenere il passo (decisioni rapide, linee dure e definite su politica estera, tutela dell’interesse nazionale, scelte impopolari se necessarie) hanno assunto una sostanza autocratica sono ovunque: Russia, Turchia, Ungheria, solo per fare i nomi dei vicini. È ormai certo che dietro significativi spostamenti di voti nella Brexit e (forse) nella campagna presidenziale USA ci siano i servizi russi, i primi ad aver intuito e sfruttato il potenziale dei social media con mezzi  non convenzionali (fake news, profili falsi, story telling, etc.).

La retorica occidentale è concorde nell’affermare che questo deterioramento della democrazia vada combattuto con la “buona democrazia”, quella in cui elettori consapevoli scelgono degli eletti in grado di utilizzare competenze proprie o altrui per il bene comune.

Ma questa è la casa delle bambole.

In Italia quasi sette elettori su dieci sono analfabeti funzionali, che voteranno con la profondità delle proprie budella il miglior venditore di pentole, e gli attori del sistema ormai ne sono pienamente consapevoli. Ecco allora la risposta anticorpale: illusione di democrazia, ma intanto governa uno solo, da fuori il parlamento. È sufficiente dare un’occhiata al numero di leggi prodotte dal governo rispetto a quelle prodotte dal Parlamento per accorgersi che in Italia il processo era già in corso da anni. Mille poltrone per dare l’illusione democratica. Costoso, inutile, ridicolo, quando può essere molto più semplice: a dare le direttive al governo è direttamente una SPA. Non abbiamo idea di chi decida, ma almeno c’è una linea chiara, decisioni rapidee unite ad una raffinata capacità di manipolazione del consenso (basti guardare i numeri di Putin o Erdogan, ma anche il grottesco talebanismo indotto dei militanti pentastelluti).

A qualcuno piace questo modello? A me no, ma da storico non posso che osservare che è questo che sta capitando, e sta accadendo perché il sistema rappresentativo puro è in crisi nelle sue fondamenta. Obsoleto, incapace di rispondere alla complessità di un contesto globale che impone scelte rapide ed efficaci senza rinunciare alla gestione del consenso.

Se non vogliamo essere governati da una SPA, bisogna ricostruire un altro modello di democrazia.

Polidori

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