Attacco alla tecnocrazia

Che Galli della Loggia da sempre veda la tecnocrazia come il più nefasto dei mali di un sistema democratico non è un mistero. Oggi, con un editoriale apparso sul Corriere, il nostro si è profuso in un attacco senza precedenti, che vale la pena di ripercorrere velocemente. Scrive della Loggia:

l’intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica.

Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all’idea – questa sì tipica di ogni populismo – che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. il nostro Presidente del Consiglio – parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati – sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario – loro sì, espressione della celebrata «società civile» – sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso. Pure per questa via, insomma, affiora nel montismo, se così posso chiamarlo, quell’opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell’«antipolitica».

Noto nel ragionamento dell’editorialista del Corriere almeno due gravi problemi concettuali.
Il primo riguarda il nesso di causa-effetto. Della Loggia sostiene che Monti abbia scelto esponenti della società civile, per loro propria natura del tutto inesperti dei meccanismi parlamentari, perché onesti e capaci di fare scelte giuste. Ma se è certamente falso che un professore universitario debba essere “costitutivamente onesto e disinteressato”, è altrettanto falsa l’idea sottesa che l’inesperienza dei meccanismi parlamentari debba costituire un problema. Sembra infatti sfuggire a della Loggia che il vero populismo (ad es. quello di Grillo) è piuttosto quello che propone di mandare in Parlamento la simpatica massaia la quale, oltre a non essere esperta dei meccanismi parlamentari non ha neppure il bagaglio intellettuale per sopperirvi. Ma è del tutto evidente che un professore universitario, che passa le sue giornate studiando, acquisirebbe tale know-how senza alcuna difficoltà in tempi rapidi.

Non solo: il cd. “Porcellum“, che ha portato il livello di laureati in Parlamento ad un imbarazzante 65% riempiendolo in compenso di yes-man o di personaggi della statura intellettuale di un Isidori (professione elettrauto, solo per fare un nome tra i più illustri), non sembra essere in grado di esprimere una politica esattamente di alto profilo, sicché non si capisce come la scelta di puntare sulla società civile possa essere considerata anti-politica tout-court.

Il secondo problema è più profondo e riguarda il concetto di tecnocrazia. Nella fattispecie non mi è chiaro perché mai la tecnocrazia debba essere costantemente vista in concorrenza antinomica con la democrazia. Eppure il disporre di un bagaglio di competenze utili al ruolo istituzionale che si è chiamati a ricoprire non sembra esattamente essere un optional cui rinunciare candidamente. Essere espertissimi dei regolamenti parlamentari ma non avere la più pallida idea sul merito dei procedimenti che si è chiamati a valutare non sembra altresì un’espressione di efficienza del processo politico o di maggiore garanzia democratica. C’è da chiedersi come molti parlamentari che mostrano oggettive difficoltà nel coniugare un congiuntivo possano disporre degli strumenti intellettuali necessari a valutare una legge sulla bioetica o, peggio ancora, una riforma costituzionale.
Siamo, a mio avviso, ancora una volta di fronte a quell’equivoco di fondo secondo cui la democrazia debba per forza appiattire la rappresentatività sulla decisionalità, senza timore di potersi trovare di fronte a un branco di incompetenti che decidono le sorti di un paese per alzata di mano.
Da sempre l’obiettivo di FORMA è dimostrare il contrario: è possibile integrare tecnocrazia e democrazia, criterio di competenza e criterio di rappresentatività. Di più, questa integrazione è ormai necessaria: come esigiamo che a costruire i ponti siano gli ingegneri, dobbiamo pretendere che chi regola l’esistenza dell’intera cittadinanza disponga dei necessari strumenti cognitivi e operativi per farlo. Il “Porcellum“, che invia in Parlamento non i candidati più adatti sotto il profilo del merito ma quelli scelti per la loro maggiore fedeltà alle linee del partito (leggasi “yes-man“) è enormemente meno espressivo, in termini di democrazia, di un sistema che individua i candidati in base al merito e che, conseguentemente, li mette in condizioni di agire in piena libertà di mezzi e di coscienza.
La tecnocrazia non è il male e non rappresenta l’anti-politica, essa è viceversa un prezioso strumento da integrare nella democrazia, non certo per sostituirsi ad essa, ma per consentirle di esprimere il suo autentico potenziale.

 

 

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