Un pollo per due.

Alcuni amici si chiedono cosa faccia FORMA, a cosa serva, se si tratta di una turris eburnea dove un gruppo di filosofi disserta di metafisica o se in qualche modo ha desiderio e facoltà di incidere sulla realtà. Per rispondere, potrà tornare utile un piccolo salto a qualche mese fa.

Dicembre 2012, il governo dimissionario ha i minuti contati per approvare la Legge di Stabilità. Tutti i partiti, che fino a quel momento avevano cercato di contenere le loro brame, si scatenano in un’ultima, micidiale offensiva. C’è chi parla – con un’immagine forse abusata ma che rende bene l’idea – di “assalto alla diligenza”. Ogni fazione e sotto-fazione cerca di ottenere fondi (spesso sottraendoli a capitoli fondamentali come la scuola o la ricerca) per mantenere le proprie clientele. Ce n’è per tutti i gusti: dal milione per il Collegio Nazionale dei Maestri di Sci ai ben più consistenti 200 milioni per il fotovoltaico passando per i 5 milioni per lo sviluppo del turismo rurale in Basilicata. In tutto 4000 emendamenti, che corrispondono spesso ad altrettante “mancette”  – come le definì il Messaggero –  con cui la «legge arraffa-arraffa» (così Bettino Craxi) miete le sue vittime.

Ho rievocato questo recente episodio horror di politica nazionale, perché a mio avviso esemplifica uno degli aspetti ricorrenti di ogni democrazia moderna. Vista sotto un profilo strumentale, infatti, la democrazia è essenzialmente una forma di governo in cui la cittadinanza, di norma attraverso suoi delegati, dispone delle proprie risorse e le utilizza come meglio crede.

Intuitivamente il sistema funziona bene se si verifica almeno una delle seguenti condizioni:

  1. Vi sono risorse oltre il necessario
  2. Esiste un sistema etico diffuso che fa sì che le risorse disponibili siano utilizzate per il bene comune e non per l’interesse particolare

In Italia, fino a quando il Piano Marshall lo consentì (1,2 mld di $ tra il 1948 e il 1951) si verificò la condizione (1), determinando in buona parte l’abbrivio della grande crescita nei due decenni successivi. La spensierata politica di indebitamento degli anni ’70-’80 in qualche modo prolungò l’illusione che tale condizione (1) perdurasse, fino ad esaurirsi di fatto nella prima metà degli anni ’90. Non ho parlato del punto (2) perché, pur avendo la sensazione che un certo sistema etico possa essere esistito nella mentalità della classe politica del dopoguerra, nutro una forte convinzione che esso si sia largamente deteriorato nei decenni successivi.

Sic stantibus rebus, la mia sensazione è che da almeno un ventennio l’Italia viva una situazione in cui il sistema democratico non funziona anche perché vittima dei propri particolarismi, in cui la classe politica è troppo impegnata nel disporre a vantaggio proprio (o delle proprie clientele) delle risorse disponibili ormai insufficienti, per pensare al bene comune. Nel sistema repubblicano, d’altronde, non esiste alcun meccanismo che intervenga sul punto (2) e i metodi proposti per risolvere il problema (ad es. l’introduzione di una legge elettorale sul modello francese) sembrano più un meccanismo di fine tuning che una vera rivoluzione di idee. Probabilmente una legge elettorale migliore gioverebbe al quadro complessivo attraverso la selezione di una classe politica più qualificata (con il cd. Porcellum la % di laureati in parlamento è la più bassa dei paesi occidentali: 65% della XV legislatura contro il 94% del Congresso USA, solo per fare un esempio), ma competenza e paradigma etico non viaggiano necessariamente su binari paralleli.

Per illustrare la situazione di un ideale meccanismo bipolare, pensiamo di avere un pollo (le risorse) e due invitati a pranzo (la cittadinanza). Per come funzionano le cose oggi, l’invitato più forte (la maggioranza) prende per sé ciò che vuole, indipendentemente dalle aspettative o esigenze dell’altro. Così chi riceve voti, ad esempio, dal bacino elettorale del mondo dell’impresa ma non – mettiamo – da quello dell’istruzione, di norma tenderà a distribuire benefici al primo a scapito del secondo, con condizionamenti crescenti man mano che si approssimano le scadenze elettorali. La legittimazione del voto fa sì che questo comportamento sia formalmente legittimo.

Ma cosa succederebbe se un meccanismo istituzionale costringesse i due invitati ad un accordo secondo cui uno fraziona il pollo e l’altro decide la destinazione delle parti fatte dall’altro?

Questa semplificazione ha dei limiti, non si può trasportare nelle architetture dello stato o nel processo legislativo sic et simpliciter. Essa, tuttavia, veicola un’idea: è possibile pensare a sistemi per il processo decisionale che introducano in maniera forzata meccanismi-paracadute per far fronte ad eventuali deficit nel paradigma etico degli attori. Si parva licet componere magnis, qualcosa di simile già accade, ad esempio, quando il papa deve nominare un vescovo, decisione che di norma si prende sulla base di una terna di nomi fornita ab extra: un attore prepara una selezione, l’altro sceglie. Si tratta di un diverso modo di declinare sia principio della separazione dei poteri che quello dei checks and balances. Infatti, mentre siamo abituati a vedere, ad esempio, il parlamento esercitare il potere legislativo ed il governo quello esecutivo (dunque una separazione verticale), l’applicazione di questo principio potrebbe vedere due attori esercitare lo stesso potere, ma con funzioni diverse (separazione orizzontale). Un vantaggio di efficienza subentrerebbe, peraltro, quando ogni attore detenesse, ad esempio, due poteri, ma esercitando solo una metà del processo.

Infine, proviamo a chiederci: cosa succederebbe se uno di questi attori fosse di natura tecnica invece che politica? Forse avremmo inventato un meccanismo-paracadute ad uno dei maggiori limiti delle democrazie contemporanee.

Questo è solo un piccolo esempio di ciò che facciamo. Immaginare nuovi strumenti al servizio della politica per ripensare le architetture dello stato secondo nuovi paradigmi, che integrino dialetticamente tecnocrazia e democrazia.

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