FiD e le speranze di un pragmatismo nuovo

Non è un mistero che presso ogni istituto di democrazia rappresentativa in cui il modello etico presenti un certo livello di degenerazione (a voi stimare se l’Italia sia uno di questi) la relazione che si instaura tra la proposta politica e il voto dell’elettore è spesso orientata alla tutela degli interessi particolari. Così, ad esempio, schieramenti che si presentavano come liberali e riformatori, hanno storicamente incontrato serie difficoltà nella liberalizzazione di alcuni settori tradizionalmente chiusi (farmacie, taxi, etc.) o nella riorganizzazione delle professioni (abolizione o riforma degli ordini professionali) per il semplice motivo che nel loro bacino elettorale tali gruppi erano ben rappresentati e si aspettavano di essere protetti nel mantenimento dei privilegi acquisiti. Questo meccanismo è spesso del tutto trasversale e riguarda soprattutto le formazioni che più si riconoscono della classica tassonomia politica di Destra e Sinistra. 

La naturale conseguenza di tale relazione, divenuta ormai strutturale, è che di fronte a un problema il tradizionale partito «di destra» o «di sinistra» tende a percorre la via che maggiormente tutela il suo bacino elettorale, con un riguardo nei confronti degli elementi terzi proporzionale, nella migliore delle ipotesi, al paradigma etico dell’attore politico. In altre parole, sembra che l’idea di bene comune si trovi da tempo relegata all’ambito della filosofia, senza alcun impatto sull’operatività pratica.

Ciò che mi è parso da subito più rilevante nell’approccio di FiD, e in qualche modo sottolineato dal nome FARE, è un nuovo indirizzo pragmatico, ancora poco delineato e di cui forse non si è presa piena coscienza, nei confronti del rapporto tra elettorato e offerta politica. L’introduzione di un forte principio di competenza, accanto a quello tradizionale della rappresentatività, negli organismi interni e nelle candidature di FiD, ha infatti implicitamente suggerito l’idea che la proposta politica di FARE sfugga alle categorie abituali di destra o sinistra, proprio per il peso attribuito al criterio di competenza. Di fonte a un problema l’approccio pragmatico di FiD sembra infatti quello di proporre la soluzione che produca la migliore combinazione di efficacia ed efficienza, valutata sulla collettività e non sulla frazione elettorale.

Quanto di questo stato di cose è attribuibile alla novità del progetto – e dunque ad una ancora fluida caratterizzazione dell’elettorato di FARE – e quanto ad un disegno consapevole? In quale misura FiD è disposto ad accogliere il principio di competenza e ad integrarlo negli ordinari meccanismi di rappresentatività democratica? Non sono in grado di fornire queste risposte, ma sono certo che tutto questo non sia affatto banale, dal momento in cui propone un drastico cambiamento di paradigma nell’elettorato. Anche a chi fa parte di un gruppo, una corporazione, una qualsiasi forma di sodalizio che nel tempo ha maturato dei privilegi, non sfuggirà, infatti, che i benefici che si possono ottenere dall’applicazione dell’approccio pragmatico orientato al bene comune possono facilmente superare gli eventuali danni arrecati dalla perdita di parte dei privilegi accumulati.

Ritengo che questa elementare pedagogia politica dovrebbe essere alla base di ogni formazione che si richiama ai princìpi del pensiero liberale, e mi piace pensare che possa trovare una più consapevole declinazione nella proposta complessiva di Fermare il Declino.

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