Le ceneri liberali
Poco prima del Natale del 2012 veniva pubblicata la cd. “Agenda Monti“, forse l’unico programma politico di stampo autenticamente liberale nell’ultimo ventennio. A poco più di due anni di distanza siamo a chiederci: cosa ne rimane? Se si andasse a votare domani, dove cadrebbe la croce dell’elettore liberale?
La domanda non è oziosa. Mentre il centro-destra oscilla tra la demagogia di Salvini e il nulla del resto, l’asse del PD si è orientato al centro e il renzismo si autoeleva a nuovo paradigma (liberale?) per il prossimo futuro. Ma guardiamoci in faccia: la proposta di Monti aveva come cardine la riduzione della spesa pubblica. Ciò che durante il breve governo del professore sia il PD che il PDL avevano costantemente osteggiato (la “spending review”) sarebbe stato il nucleo di un progetto politico futuro. Conosciamo la storia: troppo pesante l’eredità che l’IMU aveva lasciato sull’immagine pubblica di Monti, pessima la campagna elettorale, troppo eterogenea la congerie di candidati di Scelta Civica. Fu già un mezzo miracolo arrivare a circa il 10%, comunque utile per evitare una monocrazia del PD o, forse peggio, dell’inconsistente M5S.
Dopo Bondi, Giavazzi, Cottarelli, di spending review non si sente più parlare. Il motivo è stranoto: la politica italiana, in maniera davvero bipartisan, nutre le proprie consorterie attraverso la spesa pubblica per nutrire se stessa. Davvero pensiamo che Renzi non sappia che lo Stato potrebbe erogare gli stessi servizi spendendo un buon 25-30% in meno? Sono necessari i frequenti pro-memoria dei giornali (leggasi Mose, Expo, Mafia capitale, etc.) per ricordarci quale sia il meccanismo da decenni elevato a sistema con cui viene gestita la spesa pubblica? Dobbiamo meravigliarci se a Roma 9 appalti su 10 non passano attraverso un meccanismo di gara o se la Consip non riesce a presidiare più di 40 mld di spesa pubblica, cioè anche qui circa 1/10 della spesa totale per acquisto di beni e servizi?
La verità è molto semplice, e dice che non c’è mai stata, e non v’è ragione per cui sorga domani, una volontà della politica di spendere in maniera razionale. Il 90% del denaro pubblico viene speso in assenza di trasparenza, per finanziare, direttamente o indirettamente, i medesimi bacini di voto che garantiscono l’autoperpetuazione del sistema. La cittadinanza è così divisa in due: chi trae beneficio dalla malagestio della P.A., e chi viene utilizzato come bancomat. Il dettaglio significativo è che entrambe le componenti della cittadinanza hanno il medesimo diritto di voto e non tutta la “componente bancomat” vota in maniera compatta per cercare di scardinare questa inveterata dinamica di malaffare.
La defenstrazione di Cottarelli è — qualora ve ne fosse bisogno — la dimostrazione della piena continuità del governo Renzi rispetto ai suoi predecessori (politici). Ciò che è cambiato, anche in maniera drastica, è unicamente lo stile comunicativo, la retorica, l’attenzione con cui il governo tratta la propria immagine attraverso l’uso dei media vecchi e nuovi. Ma sotto al tappeto si trova esattamente ciò che c’era dieci, venti, trent’anni fa, con la differenza che con 60-70 mld l’anno di spesa per rifinanziare (a tassi bassissimi!) l’enorme debito pubblico, oggi la stessa sopravvivenza del sistema è appesa a un filo. Al primo turbamento dei delicati equilibri che la sapienza di Mario Draghi ha saputo costruire negli ultimi anni, l’Italia non potrebbe reggere. Un conto, infatti,è rifinanziare 2200 mld al 2%, altro è farlo al 7%, come sembrava stesse accadendo nell’agosto del 2011. La differenza pesa 110 mld l’anno, per capirci più della metà del PIL greco o, se preferiamo, circa 27 (ventisette) IMU sulla prima casa dell’era Monti. In una parola più sintetica: default.
L’altro pilastro dell’Agenda Monti, d’altro canto, era costituito dalle liberalizzazioni, argomento che rimanda ancora al sistema di gestione clientalare della spesa pubblica. In Italia ha più o meno sempre funzionato così: si blinda una corporazione (farmacie, taxi, notai, giornalisti, etc.) attraverso un sistema di accesso limitato e una serie di privilegi legati all’erogazione di un servizio o la vendita di un bene sottratti alla concorrenza e al libero mercato. In cambio si ricevono voti. Non è un caso se l’unica mezza liberalizzazione che ha portato a casa il PD è stata quella del notariato, un settore economicamente potente ma non così pesante in termini elettorali e, soprattutto, completamente di destra. Dove sarebbe la novità? Sempre nella comunicazione: bisogna mostrare di essere liberali e si sceglie il male minore, senza di fatto cambiare nulla di ciò che veramente blocca il sistema produttivo italiano (banche, energia, trasporti, etc.).
De hoc satis. La storia ci ha consegnato il “montismo” come un’esperienza fallimentare, e in larga parte è vero. Non per mancanza di progettualità, tuttavia, ma per assenza di forza nel conseguire gli obiettivi. Un governo senza maggioranza non può far nulla di sgradito a chi lo sostiene, e così fu per Monti. Al massimo, possiamo stupirci della sua ingenuità nel non capirlo subito.
Sperare nella nascita di un nuovo polo liberale è senz’altro legittimo. D’altro canto, tuttavia, fare affidamento sull’intelligenza critica di un elettorato che svetta nella classifica dell’OCSE per mancanza di strumenti cognitivi minimi pare, come minimo, una pia intenzione. Finché i giovani, ad esempio, penseranno alla “scatola di tonno” del M5S, completamente priva di progettualità e idee anche solo vagamente sensate (già, l’onestà non basta), saremo sempre divisi in clientes e bancomat. Fino a quando i soldi finiranno, e allora avremo un problema.
Polidori
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