È colpa vostra

Ci risiamo. Tutti d’accordo nel constatare la lentezza del Parlamento di varare leggi ordinarie, nell’osservare come negli ultimi anni a conti fatti il maggiore legislatore sia stato il governo (a suon di voti di fiducia), nel lamentarsi di come troppi attori nel processo legislativo siano, in ultima analisi, un elemento di ostacolo alla democrazia e non una forma di tutela. Ma quando si tratta di metterci le mani, ecco che torna il mito della “Costituzione più bella del mondo”.

Intoccabile, intangibile, quasi eterea nel suo ergersi come “assolutamente altro”, v’è da chiedersi dove quali siano le ragioni che alimentano questo afflato estetico dei suoi cultori. Già, perché a guardare i tempi medi di approvazione di una legge, i calendari parlamentari dove giacciono sepolti disegni di legge del pleistocene, e la bontà dei testi licenziati, fin troppo spesso stravolti nelle norme attuative quando non oggetto di interesse della magistratura per vizi di costituzionalità, parrebbe che le ombre siano ben più delle luci.

Il governo Monti lo aveva capito, ma non disponendo di un mandato politico  forte, aveva rinunciato a mettere mano alla Carta, concentrandosi dapprima sulle emergenze di breve e poi sulla riforma – strutturale – del Welfare, ma l’argomento era sul piatto: accorciare la catena legislativa non era più procrastinabile, pena relegare il Parlamento a ruolo di mero ratificatore dell’attività legislativa del Governo.

Arriviamo così all’agosto 2013. Il governo Letta mette sul tavolo la modifica dell’art.138 della Costituzione. La scelta del periodo non è casuale, diranno alcuni, dal momento che ad agosto i parlamentari di norma pensano ad altro. D’altronde il 138 è la chiave che apre tutte le porte: modificando quello si crea la cassetta degli attrezzi per una revisione profonda della Costituzione che altrimenti impiegherebbe anni e con esiti incerti, vista la durata media degli esecutivi.

L’idea è giusta, ma il peso politico del governo Letta non regge l’impresa. Un leader senza carisma e un sostegno politico (dello stesso PD) traballante sono appena sufficienti per rimanere in vita, figuriamoci per cambiare il più importante articolo della Carta.

Ed ecco qua che la furia iconoclasta del M5S sferra il facile colpo di grazia demolendo l’unica idea del governo Letta, per il resto perlopiù mero esecutore dei compiti a casa lasciati da Monti.

Con un coupe de thèâtre, i nostri eroi occupano il tetto di Palazzo Madama e iniziano una polemica senza fine che si conclude solo con la deriva del progetto di riforma. Al grido di “salvato l’art. 138 della Costituzione” i nostri festeggiano il risultato di aver difeso la Costituzione più bella del mondo. Come di consueto, soluzioni proposte pari a zero, altro tempo perso dal parlamento, e nessun orizzonte concettuale per elaborare una proposta futura.

Preso atto dell’ovvio, il governo Renzi ha dato l’unica risposta possibile. Assurto all’empireo con i voti di un altro (Bersani) attraverso una legge elettorale incostituzionale, forte però di una leadership carismatica e in grado di intessere relazioni a destra e a sinistra con la disinvoltura del più inveterato democristiano, ecco la formula tutto o niente. Il progetto di riforma costituzionale di Renzi, infatti, contiene con un iter tradizionale (il 138 non è stato toccato) una sfilza di modifiche costituzionali di entità inedita. Modifiche buone sono assieme ad altre assai meno buone (prossimamente entreremo nel dettaglio) e il tutto è vistosamente frutto di compromesso. In primo luogo la costituzione del senato: laddove sarebbe bastato un articolo di una riga (“il senato è abolito”) ecco un sesquipedale pasticcio che non solo non abolisce il bicameralismo, ma non è affatto detto che semplifichi il processo legislativo.

Di questo, insomma, bisogna ringraziare i “meravigliosi ragazzi” del M5S. Sono tre anni che ci chiediamo se un’idea ce l’hanno o si limitano a distruggere quelle (a volte giuste) degli altri, ma sembra una battaglia persa: il M5S si rivela di giorno in giorno come una scatola vuota. Già armati per il “no” al prossimo referendum, sono riusciti ad opporsi anche alla legge sulle unioni civili. Una forza di conservazione dello status quo che fa rimpiangere la DC di De Mita e Donat Cattin.

Alla faccia del riformismo.

 

Polidori

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