Destra, sinistra e crisi della democrazia
Voce di uno che grida nel deserto.
Così si potrebbe definire l’articolo apparso oggi sul Corriere a firma di Alesina e Giavazzi. Riflessioni più che sensate e che rimarranno – come di consueto – inascoltate, perché mettono a nudo non solo la crisi di identità della sinistra nel xxi secolo, ma le responsabilità di quell’area (ma non solo) nei disastri del presente. A quella analisi, lucida e impietosa, vorrei aggiungere due considerazioni di carattere più generale, nello spirito di Forma.
Che cos’è la destra, cos’è la sinistra?
Così cantava Gaber in tempi non sospetti. Già quasi un quarto di secolo fa, infatti, molti si erano resi conto che le differenze sembravano ormai limitarsi al gusto per la vasca vasca da bagno piuttosto che per la doccia. Per Gaber ciò che latitava era l’ “ideologia”, parola la sui semantica si è oggi caricata di ogni possibile nequizia. Più prosaicamente, nel mondo e nel senso comune la differenza tra destra e sinistra è costituita invece dalla concezione del perimetro dello Stato: per la sinistra un perimetro vasto che occupa larga parte della sfera umana, sociale e personale, per la destra un perimetro ristretto in cui lo Stato si occupa solo dell’indispensabile (difesa, giustizia, e poco altro), lasciano il resto all’iniziativa individuale.
Letta da una prospettiva ancora più alta, tale differenza è in ultima analisi quella del perimetro delle nostre libertà: uno Stato che vuole occuparsi di tutto (sanità, istruzione, trasporti, utilities, etc.) ivi compreso il costume (fine vita, convivenza civile, etc.) è qualcosa che restringe enormemente il perimetro della libertà individuale. In primo luogo quella economica, dal momento che è di palmare evidenza che di norma ciò che lo Stato eroga in regime di monopolio costa di più e funziona peggio di ciò che viene prodotto dal mercato in libera concorrenza.
Se la cittadinanza potesse tenere nelle proprie tasche ciò che lo Stato preleva forzosamente per erogare servizi costosi e inefficienti ognuno potrebbe spendere dove e come crede, senza contare che l’enorme risparmio che si produrrebbe potrebbe essere utilizzato a tutela delle fasce incapienti. Per queste ragioni in linea teorica la destra dovrebbe essere liberale e liberista, come pur annunciato nel 1994 da Forza Italia e anche in seguito, con meno convinzione.
Di fatto in Italia, tuttavia, né la destra né la sinistra sono state mai autenticamente liberali. Limitandosi a spartirsi la tutela di precise fasce di popolazione opportunamente protette da una legislazione di privilegi settari (solo per fare un esempio professionisti, farmacisti, forze dell’ordine, taxisti da una parte, ministeriali, operai e pensionati dall’altra), la destra e la sinistra italiana si configurano da sempre come diversamente stataliste. In questo l’articolo di Alesina-Giavazzi va mitigato nel suo j’accuse alla sinistra: la destra è ugualmente colpevole di aver soffocato l’iniziativa individuale, in primo luogo economica, con effetti che ora sono sotto gli occhi di tutti.
La crisi della democrazia
Ma c’è dell’altro. La vicenda della Brexit e – si parva licet componere magnis – l’esito del nostro referendum costituzionale, hanno dimostrato che le società del xxi secolo sono espressione di una complessità che semplicemente non è governabile da forme di democrazia diretta. È totalmente irrealistico affermare che ciò che non riescono ad afferrare completamente neanche gli uffici studi dei parlamenti europei possa essere dominato dal cittadino medio, già alle prese con il suo 40 e passa % di analfabetismo funzionale.
A nostro avviso , tuttavia, questa potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, cui soggiace una questione strutturale ben più profonda. Ogni sistema parlamentare, infatti, si basa esclusivamente sul principio di rappresentanza, con il grottesco risultato che per insegnare in una scuola elementare occorrono laurea, specializzazione e concorso pubblico ma per fare il Ministro della Pubblica Istruzione è sufficiente la licenza media. Nelle società in cui il senso critico è stato meno minato da una caduta verticale dell’istruzione tali effetti sono mitigati dal buon senso, e gli eletti fanno ampio affidamento su una classe tecnica e – nei casi più virtuosi – gli stessi ministri sono espressione tecnica più che politica (si veda il caso del Canada). Non così in Italia dove la vittoria di “uno vale uno” sancisce la morte e sepoltura di ogni forma di meritocrazia, con esiti prevedibilmente disastrosi.
La crisi del presente sembra dunque venire da lontano. La svolta impressa nella politica economica del Regno Unito già a partire dall’era Cameron, come quella avviata già prima in Irlanda e ora in Spagna avrebbero dovuto illustrarci come una svolta liberale e liberista produce effetti economici positivi quasi immediati. La promozione di una cultura della meritocrazia, parimenti, potrebbe ispirare una riforma più profonda degli assetti democratici, trovando nuove forme di espressione della sovranità popolare in grado di gestire la complessità di questo millennio.
Voce di uno che grida nel deserto.
Polidori
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