Bentornati al reato d’opinione (1926)

Sta per approdare all’esame della Camera, dopo essere stato discusso in commissione, il DDL n.245, meglio noto come Legge Scalfarotto (dal nome del primo firmatario) sull’omofobia. Si tratta, in sostanza, della revisione della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205. (meglio nota come Legge Mancino)

La materia è complessa, non tanto per quanto suggerisce una prima lettura del testo (in sostanza l’allargamento della Legge Mancino all’omofobia), quanto per numerose implicazioni che non hanno a che vedere con la materia della legge quanto con il diritto alla libera manifestazione del pensiero.

Ma andiamo con ordine. La Legge Mancino rappresenta lo stadio finale di un processo legislativo iniziato alla metà degli anni ’60 con la Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Nella sua traduzione legislativa del 1993 (tralascio per il momento la storia della legge tra il 1975 e il 1993) è considerato reo chi:

diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

e chi

incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

 

A margine, la legge vieta ogni

organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

e punisce anche

coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi

 

Rispetto alla formulazione del 1975, quella del 1993 è inoltre inasprita allargando il soggetto di colpevolezza a:

Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3…

chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.

Vengono inoltre definite le circostanze aggravanti (art.3 legge 205)

Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà

 

Prima facie, il testo non sembra suscitare grandi problemi, dal momento che si suppone siamo tutti fermamente convinti della fondatezza della lotta contro le discriminazioni razziali o religiose. Tuttavia una lettura più meditata del testo evidenzia almeno due questioni su altrettanti aspetti della sua formulazione:

  1. La legge punisce chi «diffonde in qualsiasi modo idee…»
  2. La legge punisce chi «incita atti di provocazione alla violenza…»

Il paniere dell’oggetto della discriminazione è peraltro piuttosto ampio: si va dal razzismo all’odio etnico e nazionale fino alla discriminazione religiosa. Anche la definizione della fattispecie di reato è altrettanto lata: “diffondere in qualche modo idee” ovvero “incitare atti di provocazione alla violenza”. Tale vaghezza può prestarsi a innumerevoli interpretazioni: se vado al bar e racconto al mio sodale di cappuccino la mia indignazione per il caso Oneda sto potenzialmente avendo a che fare con entrambe le fattispecie, per il semplice fatto di esporre in maniera del tutto civile un’opinione, come garantito dall’art. 21 della Costituzione:

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Questa succinta cronistoria della legge suggerisce che il problema principale non risieda tanto nel suo oggetto diretto (odio razziale, discriminazione religiosa, etc.) quanto piuttosto nelle sue implicazioni, in primo luogo quella della possibilità tutt’altro che remota di istituzionalizzare il reato d’opinione. Tale problema è stato evidentemente recepito in tempi recenti dalla Legge 24 febbraio 2006, n.85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione) che, con l’art. 13 ha determinato ulteriori modificazioni della Legge Mancino facendogli assumere una nuova formulazione.

Quello che qui interessa sono soprattutto due modifiche:

Come si è visto, la legge Mancino parla di «chiunque diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale» e «incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza». La Legge 85 modifica questi due verbi rispettivamente in “propaganda” e “istiga”, con un indirizzo assai chiaro: è lecito esternare qualsiasi opinione, financo razzista o discriminatoria, ma non è lecito propagandarla; è accettato che l’esternazione possa costituire in sé (si presume involontariamente) una indiretta incitazione a commettere violenza, ma non è accettata una istigazione diretta alla violenza.

I pregi di questa modifica sono evidenti: salvando interamente la sostanza della Legge Mancino, la riporta nell’alveo costituzionale facendo decadere la fattispecie di reato d’opinione, completamente inaccettabile in qualsiasi contesto liberale e di dialettica democratica.

Veniamo all’oggi.

Il 245 è probabilmente il DDL più firmato della XVII legislatura. Non è difficile intuire il perché: la lotta contro l’omofobia (monstrum filologico sul quale ora non posso soffermarmi) è una bandiera che può essere  brandita da molti ricavando popolarità e un’aura di liberalità facilmente spendibili in contesto elettorale. In questo senso, in effetti, non ci sarebbero enormi problemi ad aggiungere alla lista dei motivi di discriminazione quelli

motivati dall’identità sessuale della vittima;

Il problema (e mi chiedo quanti dei firmatari se ne siano avveduti), è che tra le pieghe del disegno di legge, si celano due problemi ben più seri:

  1. Il testo viene riformulato ex ante la legge 85 del 2006, quindi tornando al binomio “diffonde/incita”
  2. Tra le circostanze aggravanti, verrebbero annoverati non già i reati «commessi per finalità di discriminazione», ma per «motivo di discriminazione».

La sostituzione di sole tre parole ha un effetto potenzialmente devastante: non solo si reintroduce – contro tutta la normativa vigente dal 2006 – un reato d’opinione, ma esso si carica di circostanze aggravanti anche se esso non è finalizzato alla discriminazione. In altre parole, se tale DDL venisse convertito in legge con questa formulazione, si potrebbe verificare il caso di un parroco che viene condannato perché in un’omelia o in un corso pre-matrimoniale si produce in un chiaro statement contro il concetto di “identità di genere”, ma lo stesso caso potrebbe riproporsi per uno psicologo, un sociologo, un politico o chiunque, magari su domanda di un soggetto terzo,  volesse esprimere un’opinione in tal senso.

Il DDL, infatti, non indica nessun criterio per distinguere una opinione sanzionabile da una non sanzionabile, riducendo comunque ogni genere di opinione in odore di discriminazione omofoba al rango di “pregiudizio”. Nei prolegomeni del DDL, infatti, lo stesso estensore dichiara che:

«la differenza tra un mero pregiudizio e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo di luogo, nel corso delle quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore…»

In altri termini, il magistrato sarà dotato non tanto di una legge, quanto di una formidabile clava da utilizzare a sua totale discrezione per abbattere chi espone opinioni non ritenute consone al vago spirito della norma.

Senza voler entrare negli innumerevoli altri problemi suscitati dal disegno di legge in questione, ritengo che rifiutare le modifiche che reintrodurrebbero il reato di opinione sia innanzitutto una questione di civiltà.

 

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