Ripensare la Giustizia in Italia

“Mi faccia causa”. L’invito, non privo di ironia, all’aula del tribunale è diventato negli ultimi decenni un cliché di un certo successo presso clienti non intenzionati a pagare i servizi richiesti a un fornitore. Non è un segreto: i tempi della giustizia civile sono tali che la possibilità di esigere un credito per vie giudiziarie diventa modesta, specie se il cliente è una società che può nel frattempo dichiarare fallimento o se ha le spalle abbastanza larghe da tirare il procedimento giudiziario per le lunghe. Questo devastante stato di cose è aggravato da un non migliore panorama nell’altro ramo della giustizia dove — per restare all’ambito economico — la depenalizzazione del falso in bilancio e la totale assenza della certezza della pena determinano spesso un orizzonte da Far West.

Non stupisce dunque che le imprese internazionali tendano a non impiantare le loro attività in Italia. Per forza, burocrazia impossibile per l’avviamento, tassazione proibitiva, nessuna certezza da parte di chi eroga un servizio o vende un prodotto di essere pagato: per quale dannato motivo uno dovrebbe investire in Italia a queste condizioni?

Quanto alle cause di questo sfacelo, di certo sono molteplici, ma ne vorrei elencare almeno tre:

1. Elementi sistemici. Le procedure sono inutilmente farraginose, sotto l’alibi di un garantismo comunque ampiamente dimenticato (basti guardare cosa avviene nella giustizia tributaria con la presunzione di colpevolezza). È ormai dottrina diffusa che tre gradi di giudizio siano solo materia per arricchire gli avvocati dal ricorso facile: e se invece si cominciassero a sanzionare sia i ricorsi disinvolti che gli errori giudiziari? È pure evidente che molte fattispecie di reato potrebbero essere sottratte all’autorità giudiziaria ed essere risolte in altra sede (dalla guida in stato di ebbrezza alla violenza negli stadi, solo per fare due esempi di reati comuni).
2. Autoreferenzialità. La magistratura è l’organo meno accountable che esista nel nostro ordinamento. Con il pretesto dell’indipendenza, essa non risponde a nessuno del suo operato, della sua efficienza, dei suoi trattamenti economici o di quelli pensionistici. Peggio ancora, in tempi recenti ha pensato bene di occupare il vuoto lasciato da una politica irresponsabile e scavalcarla con sentenze come quelle su Stamina o sulla fecondazione eterologa che, comunque la si pensi, sono materia su cui si era già espresso il Legislatore. Mai come in questo caso, si sente l’esigenza di quei cheks & balances che i padri della “Costituzione più bella del mondo” sembrano aver fatalmente dimenticato.

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3. Sistema carcerario. L’importanza dell’ultimo anello della catena è costantemente trascurata, salvo quando arrivano le sanzioni dall’UE. In Italia il sistema carcerario costa più del doppio di quanto costi in Spagna e due volte e mezzo di più di quanto costi negli USA. Un sistema che è al collasso con soli 65 mila detenuti (per dare un’idea negli USA la popolazione carceraria è di 2 milioni di persone) soprattutto per ipersindacalizzazione e inefficienza complessiva. Eppure con la dismissione delle caserme dopo la riforma della leva le strutture ci sarebbero. Con un investimento minimo la caserme potrebbero essere convertite in strutture detentive e il servizio dato in outsourcing a chiunque fosse in grado di utilizzare i detenuti per mansioni produttive (attualmente lavora solo il 21% circa) in vista di un reinserimento nella società e soprattutto per non incidere sulla cittadinanza (ogni detenuto oggi costa circa €3500 al mese). La disponibilità di strutture detentive rimetterebbe in moto il meccanismo della legalità, mentre oggi le stesse Forze dell’Ordine abdicano alla lotta alla microcriminalità perché le carceri sono già sovraffollate e in buona sostanza in carcere non va più praticamente nessuno, con buona pace della sicurezza della cittadinanza (su questo la Lega ha ragione da vendere).

Infine, una provocazione. Molti dei disastri italiani, anche in materia giudiziaria, sono determinati da una legislazione ipertrofica. Fa parte della nostra cultura occidentale, figlia del diritto romano e della Scolastica, l’idea affascinante ma del tutto irrealistica di compendiare tutto il reale in casi descrivibili da una legge, e tuttavia la realtà è più complessa di un qualsiasi codice. Nell’ottica di una futura integrazione europea, e in considerazione dello scarsissimo amore per l’UE del Regno Unito, perché non pensare di fare tabula rasa di un sistema ormai difficilmente riformabile e passare recta via al Common Law di stampo anglosassone? Sarebbe una formidabile riforma nel senso della semplificazione e un gesto concreto per ridurre le distanze con l’oltre-Manica.

Polidori

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