Le nuove sfide della Democrazia

In questi giorni si stanno consumando nelle aule parlamentari le ultime fasi della riforma del Senato. Ammesso che essa riesca a terminare il farraginoso iter previsto per le leggi costituzionali, essa ci consegnerà un sistema ibrido, forse più governabile ma con diversi nuovi problemi. Come più volta ha fatto notare Ainis, scindere la riforma della Legge Elettorale dalla riforma del senato potrebbe creare degli effetti paradosso, tanto più se si dovesse andare alle urne in tempi brevi, e dunque con un proporzionale puro e col rischio di avere due diverse maggioranze (al senato la fascia di età 18-25, che vota consistentemente per il M5S non avrebbe parola).
C’è di più. Lo strano tentativo di metter mano alle Riforme Istituzionali tramite la Legge Elettorale (e dunque ricorrendo ad un éscamotâge) potrebbe comunque sacrificare la democrazia sull’altare della governabilità: vista la crescente disaffezione alle urne e il tenace persistere dell’idea del premio di maggioranza, a decidere delle sorti della nazione sarebbe non già la maggioranza, ma la “minore minoranza”. Ex hypothesi e semplificando un po’, con un’affluenza del 60% (che qualcuno definirebbe ottimista) e un premio al 40%, la maggioranza assoluta verrebbe accordata dal consenso di un italiano su quattro: altro che democrazia.

Se ne è accorto anche Della Loggia che, in un fondo dello scorso 20 novembre scriveva:

«Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida. Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente « discutidora » che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.»

Ed è questo il punto. Renzi, come tutti i suoi predecessori, sta cercando di fare riforme senza in realtà riformare nulla, senza cambiare radicalmente nessuno degli istututi tipici delle architetture delle democrazie del secolo scorso. Limitarsi ad una blanda ridefinizione di ruoli è, al massimo, una più o meno sensata operazione di “fine tuning”, non una riforma. Riformare vuol dire immaginare una cosa che prima non esisteva, non smussare gli angoli di ciò che già esiste (e non funziona). Peraltro, delle due l’una: o si rinuncia al sistematico utilizzo dello strumento delle leggi delega e dei decreti, oppure si prende atto che la rigida separazione tra potere legislativo ed esecutivo non ha più senso nel 2014. Qual è il senso di un Parlamento (peraltro bicamerale) i cui componenti si limitano sempre più a ratificare, o nella migliore delle ipotesi ritoccare, l’azione legislativa del governo?

La proposta di Forma, pur nel suo orizzonte visionario, non fa altro che proporre un modo diverso di articolare gli stessi poteri ma senza sacrificare l’assetto democratico e la sovranità popolare come l’Italia si sta accingendo a fare. Possibile che tra visione e realpolitik non ci siano alternative?

Polidori

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