Eccesso di democrazia?

Quando il 15 dicembre dello scorso anno, intervenendo alla convention di Rinascimento Italiano sul tema delle riforme istituzionali ebbi a dire che la storia recente dimostra che queste devono esser fatte a monte di quelle economiche, fui guardato come un marziano. Eppure il quadro non era certo complesso: chiunque negli ultimi 20 anni ha cercato di introdurre riforme strutturali in Italia, si è scontrato non solo con i consueti gruppi di pressione (sindacato, corporazioni, lobbies), ma soprattutto con l’alta burocrazia e, non ultimo e specialmente in tempi più recenti, con la legislazione concorrente delle Regioni. Ognuna di queste realtà, pur operando indipendentemente e secondo diverse modalità, ha di fatto spesso agito in aperta opposizione a ogni forma di cambiamento dello status quo, riuscendo quasi sempre a bloccare ogni opera di riforma. Il governo Monti ne è solo un recente paradigma, con la spending review bloccata dai burocrati, o l’abolizione delle Province dai gruppi politici che pure sostenevano il governo. In questo quadro, assumendo una prospettiva del tutto empirista, suggerivo che il prossimo governo avrebbe fatto meglio a introdurre prima le riforme costituzionali necessarie a dotarsi di nuovi e più efficaci instrumenta laboris, e  dopo le ricette di risanamento economico.

Solo diversi mesi dopo sulla stampa è venuto alla ribalta il tema delle riforme costituzionali, prima con i “saggi” di Napolitano, poi con il dibattito sul presidenzialismo. Molte parole e poche idee veramente nuove, ma almeno la presa di coscienza che una Costituzione invecchiata e non più efficiente (ammesso che lo sia mai stata) sia la principale causa del problema.

Finalmente qualche giorno fa, se ne è accorta anche JP-Morgan, con un rapporto sulla situazione economica dei paesi dell’aera Euro. Senza peli sulla lingua, il gruppo di analisti che ha stilato il documento (JPM-the-euro-area-adjustment–about-halfway-there), parla con una certa franchezza di una ridondanza di strutture democratiche (una su tutte il bicameralismo) e di ispirazione socialista che nella pratica si traducono in governi deboli e orientati dalle (e alle) clientele:

The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that left wing parties gained after the defeat of fascism. Political systems around the periphery typically display several of the following features: weak executives; weak central states relative to regions; constitutional protection of labor rights; consensus building systems which foster political clientalism; and the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo. The shortcomings of this political legacy have been revealed by the crisis. Countries around the periphery have only been partially successful in producing fiscal and economic reform agendas, with governments constrained by constitutions (Portugal), powerful regions (Spain), and the rise of populist parties (Italy and Greece).

Naturalmente ciò che ad alcuni sembra ovvio, e che andiamo per questo dicendo da sempre, ad altri provoca reazioni scomposte, come ad esempio quella del Fatto, che titola: Finanza e casta vogliono scassinare la Costituzione! (sic), imitato da decine di bloggers.

Il relativo silenzio della stampa di sinistra, comprensibile dal momento che l’obiettivo primario dichiarato dal governo Letta sono proprio le riforme costituzionali, almeno giova a far sedimentare la diagnosi condivisa secondo cui invece di chiedersi se è preferibile trascinare il menhir con corde di canapa oppure di acciaio, sarebbe preferibile inventare la ruota.  Sulla capacità del gruppo di Letta di arrivare ad una proposta concreta ed efficace, sono invece piuttosto disilluso, vuoi per le troppe persone coinvolte nel processo, vuoi perché i costituzionalisti vanno benissimo per proteggere e verificare le carte costituzionali, ma nutro seri dubbi sul fatto che possano farne di nuove. La storia, infatti, dimostra che raramente le rivoluzioni delle idee sono fatte dai tecnici, anche se poi questi sono fondamentali per le successive operazioni di fine-tuning. In questa fase storica, tuttavia, ciò che serve non è un lifting di ciò che abbiamo (come sembra voler fare il governo Letta), né una scopiazzatura di ciò che hanno i vicini (come vorrebbe Guzzetta, ad esempio), ma qualcosa di veramente nuovo che riesca a incarnare i princìpi della democrazia senza bloccarli nei mortali ingranaggi della burocrazia, del clientelismo e dello short-termism.

E diciotto mesi per scoprire se ci riusciremo sembrano essere davvero troppi.

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